La bolla dell’auto elettrica. E, forse, il ritorno dell’idrogeno

C’era una volta l’auto a idrogeno, un’auto estremamente efficiente la cui tecnologia era ampiamente rodata sin dal XIX secolo. L’auto a idrogeno è l’unica dotata di tecnologia assolutamente ecologica, priva di emissioni nocive, l’unica che può consentire la mobilità a cicli chiusi per l’economia circolare, potrebbe contare su una catena di rifornimento capillare e su una duplice filosofia tecnologica e costruttiva che richiede investimenti non ingenti e di sicura durata: quella a combustione interna, quasi identica ad ogni altro motore endotermico sposata ad esmpio da BMW, e quella a celle a combustibile, più raffinata ed innovativa ma anche più costosa, scelta dalla maggior parte degli altri costruttori (qui la prova di una Toyora Mirai). In ogni caso, è un’auto davvero a emissioni 0. Sino a qualche anno fa, vi era un gran fermento di iniziative intorno alla mobilità a idrogneo, tra cui quella più famosa, non solo in Italia, cui partecipava anche OPUSNET insieme al CIRPS dell’Università La Sapienza di Roma e al CNR, che si concludeva ogni anno nello show H2Roma, il cui sito è ormai spento, ma di cui potete ancora leggere qui:

Quattroruote 2007

Quattroruote 2008

Quattroruote 2009

Quattroruote 2011

CNR 2007

Infomotori

Sicurauto sulla delusione degli ultimi incentivi statali 2013-15.

All’improvviso tutto finì. L’auto a idrogeno scomparve dai radar: le industrie ritirarono prodotti e prototipi, determinando persino la chiusura di una manifestazione di successo mondiale come H2Roma, e i governi decretarono la fine degli incentivi a questa tecnologia. Al suo posto apparve una zoppicante auto ibrida ed elettrica, basata su tecnologie ancora da ‘inventare’, su un feroce inquinamento produttivo e operativo (cui si aggiunge il costo energetico ed ambientale dello smaltimento di batterie esauste), sulla carenza di materiali e tecnologie adatte alle batterie e tutta una serie incredibile di drawback, che rendono il prodotto e il processo altamente inefficienti dal lato finanziario, ambientale, economico e gestionale, nonché assolutamente oneroso per le tasche del contribuente e quelle dell’acquirente. Dall’enorme autonomia dell’auto a idrogeno, anche superiore a quella dei motori endotermici, si è passati a ridicoli range di 200-400 km, ottenibili però solo nei primi due anni di vita delle batterie, dell’auto elettrica…

Possibile tanta cecità e ignoranza strategica da parte dei costruttori? Si, se il mercato viene drogato da incentivi (ora molto più ingenti di prima) che dall’oggi al domani vengono spostati da una tecnologia efficiente (l’idrogeno) ad una altamente inefficiente (l’elettrico). Ma i motivi quali sono? Ebbene, senza neanche voler pensare male vi è sempre il complesso petrolchimico dietro tali scelte. L’idrogeno, che può essere generato per semplice elettrolisi dall’acqua, avrebbe di colpo fatto crollare l’economia del petrolio-carbone, mentre l’elettrico l’ha rilanciata, essendo le fonti fossili ancora la principale materia prima per la produzione di energia elettrica. Questa viene prodotta centralmente con processi altamente inefficienti, poi traportata con gravi perdite energetiche e infine consumata localmente. L’idrogeno no! Esso può essere generato on-board, cioè direttamente sull’auto da un elettrolizzatore! Ecco svelato il motivo.

Ma adesso si tornerà probabilmente indietro, nonostante le migliaia di miliardi di incentivi sinora sprecati sull’elettrico… I motii sono da individuarsi, tra l’altro, sia nello stato dall’arte della distribuzione elettrica, che nello stato ancora piuttosto primitivo delle tecnologie disponibili per le batterie e nella disponibilità molto limitata di litio sulla terra: la Bolivia del nemico americano Morales è praticamente l’unico Paese che può contare su una certa disponibilità, e proprio per questo motivo le industrie cinesi hanno sin dall’inizio abbracciato una tecnologia alternativa, quella degli idruri di ferro. Le ultime direttive europee in materia (Euro 7) sono state poi accolte negativamente dall’industria dell’auto, che sta facendo enorme pressione per una (indecorosa a dire il vero) retromarcia. Anche negli USA la General Motors passa dall’essere una fiera paladina dell’elettrico (“dal 2035 produrremo solo auto a zero emissioni”) a posizioni più prudenti (“dobbiamo dare ai consumatori quello che vogliono quando lo vogliono”), nonostante dodici Stati abbiano chiesto al presidente Biden il  bando dei motori benzina e diesel proprio entro il 2035. Chi va avanti noncurante di tutto è invece la Cina, che come dicevamo ha abbracciato tecnologie alternative per le batterie ed è stata pioniera del settore. Ma andiamo per gradi.

“I veicoli elettrici sono sopravvalutati e faranno collassare l’attuale modello di business dell’industria automobilistica”, aveva detto Akio Toyoda, presidente della Toyota, nel dicembre scorso: il manager invocava un’adozione delle vetture a batteria razionale e coerente con la domanda di mercato, che oggi è invece sorretta solo dagli incentivi statali. A distanza di qualche mese, il tempo sembra avergli dato ragione. “Rischiamo di sperimentare una disoccupazione senza precedenti” per via delle ripercussioni sulla forza lavoro, gli faceva eco Manfred Schoch, presidente del consiglio di fabbrica della BMW. Per Carlos Tavares,
AD di Stellantis, così come inizialmente abbozzato, “lo standard Euro 7 va oltre le semplici regole della fisica. Così, sarebbe semplicemente impossibile continuare a produrre auto endotermiche”.  Le stesse che, però, il mercato continua a prediligere! Di conseguenza, l’Agves (European Advisory Group on Vehicle Emissions) si prepara ad aggiustare il tiro della bozza prodotta a novembre 2020 per i futuri standard di omologazione Euro 7 (che dovrebbe entrare in vigore dal 2026), che  prevedeva criteri tanto severi da decretare l’estinzione dei motori termici e di molti ibridi. Ipotesi che ha generato i suddetti mal di pancia sia a livello sia politico che industriale.

Ma veniamo alle difficoltà di rifornimento, l’altro tallone di Achille della catena distributiva, che da solo potrebbe determinare la morte in culla dell’auto elettrica, almeno dal punto di vista degli utenti. L’Ue si è prefissata un milione di punti di ricarica entro il 2025. Nello scorso settembre erano 250 mila, dunque per centrare le previsioni ne servirebbero 150 mila aggiuntivi ogni anno, circa 3.000 a settimana. Impossibile quindi centrare l’obiettivo nei tempi dati, sopratutto in Italia fanalino di coda europeo: degli 11.837 punti in Italia, 10.884 offrono la ricarica lentissima fino a 22 kW; solo i rimanenti 953, invece, supportano potenze superiori fino a 50 kW (colonnine fast) e fino a 350 kW (super fast). Quindi colonnine molto rarefatte e concentrate al Nord (qui la mappa), e tempi biblici di ricarica –qui i tempi di ricarica con le diverse tecnologie. Ulteriore freno allo sviluppo, che non potrà essere superato in breve tempo dati gli enormi investimenti necessari, è la sua rigidità: fino al passaggio definitivo alle smart grids, essa non potrà svilupparsi come voluto.

In definitiva: le case automobilistiche si stanno svenando per investire in una tecnologia che pochi comprano, la rete non è pronta e non lo sarà nell’immediato, gli incentivi che dovrebbero stimolare il mercato (o drogarlo, dipende dai punti di vista) non riescono a sostenere né l’offerta né tantomeno la domanda -gli automobilisti continuano infatti a preferire tecnologie più efficienti, comode e sicure come il motore endotermico, specie nelle versioni a gpl e metano. I costi ambientali sono enormi e i ritorni economici, seppur vi saranno, molto diluiti nel futuro. Pertanto, seppur non si può dichiarare esaurita la spinta verso l’elettrico, essa sarà notevomente ridimensionata nel futuro. Intanto l’Europa si muove per un ritorno agli incentivi all’idrogeno. Ma questo sarà argomento di un prossimo post.